N.B.: Le informazioni contenute in questi articoli sono in parte estratti dalle dispense che consegnavo agli studenti della S.U.I.S.M. ai tempi della Docenza Universitaria, in parte il frutto della ricerca bibliografica effettuata durante il mio Dottorato di Ricerca ed in parte considerazioni personali nate durante gli anni di esperienza clinica sui pazienti.
STRETCHING O TECNICHE DI ALLUNGAMENTO MUSCOLARE - Considerazioni Generali
Generalmente con il termine "stretching" (dall'inglese "allungamento" o "stiramento") si indica il complesso di tecniche che hanno lo scopo di migliorare le proprietà visco – elastiche del tessuto muscolare con tutti i suoi annessi. Quando parliamo di annessi ci riferiamo alla struttura connettivale del muscolo, del tendine e a quella capsulo legamentosa dell'articolazione. Vedremo nel prossimo articolo che è proprio su queste strutture che lo stretching agisce, e non tanto sul muscolo, inteso come parte contrattile del tessuto.
Tutti i gesti motori che esprimono grande ampiezza di movimenti, eseguiti con gli arti inferiori, superiori o con la colonna, contengono in se due importanti elementi: l'elasticità muscolare e la mobilità articolare. Queste sono Capacità Coordinative Intermedie, ed esiste una netta differenza tra le due espressioni. Quando parliamo di elasticità muscolare si intende la suscettibilità del muscolo ad essere allungato e, al termine di questa sollecitazione meccanica, tornare alla sua lunghezza originaria; quando parliamo di mobilità articolare si intende l'ampiezza dell'escursione articolare nei tre piani dello spazio. Anche se da un punto di vista didattico si propone una separazione tra le due espressioni, da un punto di vista pratico esse rappresentano le classiche due facce della stessa medaglia, inseparabili ed importanti in ugual misura e che vengono entrambe coinvolte durante l'esecuzione di un esercizio di allungamento (sempre che sia eseguito con le corrette modalità).
I fattori che limitano o facilitano la flessibilità e la mobilità articolare sono di natura anatomica (cioè conformazione articolare, componente tendinea, connettivale e capsulo legamentosa), ma anche di natura neuro – fisiologica (entità del tono fusale – fuso neuromuscolare. Si omette volutamente tutto il capitolo legato alla rigidità da patologia neurologica). Furono Johns e Wright che nel 1962 determinarono il contributo di ogni tessuto molle alla resistenza totale riscontrata durante il movimento. Si notò che: la capsula articolare ne era responsabile per un 47%, il muscolo e la fascia per un 41%, i tendini ed i legamenti per un 10% e la pelle per un 2%.
In letteratura troverete anche altri fattori che influenzano la flessibilità muscolare e la mobilità articolare e sono: età, sesso, predisposizione genetica ed attività fisica svolta. Diminuiscono progressivamente con l'età e la mancanza di attività, poiché aumenta la viscosità della componente connettivale ed in generale le donne sono più flessibili. Il bagaglio esperienziale che ho acquisito tra gli anni universitari e quelli professionali, mi ha portato a riflettere molto su questi aspetti e sono giunto alla conclusione che finché i tessuti sono vivi sono anche profondamente modificabili. Se la stimolazione è continua e persistente e possibile raggiungere età avanzate con ottimi gradienti di elasticità (vi è mai capitato di vedere maestri yoga ultraottantenni? Sembra facciano cose impossibili, ma considerate che l'hanno sempre fatto!). Inoltre, anche la cosiddetta "predisposizione genetica" è un elemento da contestualizzare, perché ho visto persone non proprio giovanissime migliorare moltissimo la propria elasticità partendo da una situazione di estrema rigidità. Va da sé che il raggiungimento degli obiettivi non passa certo attraverso la moderazione (perché rappresenta solo una distrazione dal focus mentale): ai miei pazienti dico sempre che gli obbiettivi devono diventare come un mantra dalla continua e costante ripetizione. Per concludere, non ho mai riscontrato come regola assoluta che il sesso femminile sia genericamente più elastico del sesso maschile, perché dipende dalla quantità e tipologia di lavoro svolto sullo stretching.
Dalla letteratura scientifica internazionale emerge un dato importante ma che deve essere interpretato alla luce di una conoscenza approfondita delle modalità esecutive dello stretching: molti autori hanno studiato gli effetti acuti delle routine di stretching sulle performance di forza (Kokkonen et al., 1998; Fowless et al., 1999; Behm et al.,2001; Nelson et al., 2001; Rubini et al., 2001; Power et al., 2004) ed è emerso un suo decremento con percentuali variabili dal 4,5% al 28%, indipendentemente dalle modalità di stretching utilizzato (statico, balistico o PNF) e dalle prove effettuate (isometriche, isotoniche o isocinetiche).
Altri autori (Worrel et al., 1994; ,Handel et al.,1997), hanno invece studiato gli effetti cronici dello stretching sulla forza ed i risultati sono stati decisamente invertiti.
Come mai questa differenza? Avete mai provato a fare una sessione di stretching con tempi variabili da 10 a 30 – 40 minuti (fino ad arrivare all'ora e mezza continuativa e senza pause dell' Ashtanga yoga) e con tutte le corrette modalità esecutive: tempo di permanenza in posizione, respirazione, controllo dell'addome, del bacino e della colonna, chiusura della posizione con l'ausilio delle braccia? Se non l'avete mai fatto, credete che non sia stancante? Allora provate a fare delle prove di forza subito dopo la sessione e valutate se avete lo stesso gradiente di forza che avevate prima della sessione.
Per contro, l'effetto a lungo termine dello stretching può aumentare la forza per il fatto che riduce il tono fusale (e di conseguenza quello muscolare) e diminuisce la tensione della componente connettivale endo-, peri- ed epimisica. Questi due fattori diminuiscono la loro influenza sulla pervietà vasale con un conseguente miglioramento dell'irrorazione sanguigna alle fibrocellule muscolari e tutto ciò conduce ad una migliore efficienza degli eventi ionici, enzimatici e ormonali che sottendono alla contrazione muscolare.
Alcuni studi (Goldspink et al., 2002) attribuiscono questo miglioramento alla stimolazione della sintesi proteica ad opera del fattore di crescita MGF (Mechano Growth Factor) in seguito allo stretching. Lo stesso fattore di crescita è implicato nei processi riparativi e di rimodellamento del tessuto muscolare (Goldspink et al., 2002; Hill et al., 2003).
In conclusione lo stretching è una metodica utile per incrementare non solo la performance sportiva ma anche, in una prospettiva salutistica, per il mantenimento negli anni di un'efficienza muscolare, grazie allo sviluppo di una ambiente tissutale favorevole al mantenimento del tono–trofismo ed al fisiologico funzionamento dei processi riparativi intrinsechi.